Sotto la pelle di Marco Magnani

Sotto la pelle di Marco Magnani

Sassari 1999.

Ci sono due modi di percepire il mondo: il primo è vedere le cose dall’esterno, già formate, l’altro è andare sotto la pelle delle cose per scoprirne la struttura nascosta, il divenire di particelle vorticanti, in perenne movimento nello spazio, che unisce il microcosmo al macrocosmo. Questo è il modo di percepire che trapela dall’opera di Antonio Secci, artista di Dorgali formatosi a Milano negli anni Sessanta.

La prima fase della carriera di Secci è caratterizzata da un’astrazione organica, non geometrica, di matrice surrealisteggiante, in sintonia con le esperienze spazialiste di Gianni Dova, l’incontro col quale, e con Guy Harloff, aveva spinto l’artista a trasferirsi a Milano. Fin d’ora, comunque, emerge un vitalismo che esplode subito dopo nelle opere dei primi anni Settanta, realizzate con assemblaggi di minute scaglie metalliche, lasciate in vista o ricoperte di colore, attraversate da segni zigzaganti carichi di tensione dinamica che accennano a un superamento dei confini del quadro: tema, quest’ultimo, molto caro alle ricerche degli spazialisti. E difatti questi lavori nascono dagli stretti contatti con un’altra figura chiave del movimento, Roberto Crippa, del quale Secci è stato collaboratore fino alla morte dell’artista. L’interesse per l’uso del metallo non deriva da una volontà di sperimentazione linguistica fine a se stessa, ma si direbbe investito di significati simbolici: costretto in forme affilate, tese e spezzate, ricorda simultaneamente il fulmine e il parafulmine, un’antenna costruita per catturare e convogliare energia. Antenne o frecce, questi segni aguzzi ritornano altre volte a dinamizzare l’inerzia di superfici di stucco spesso come intonaci rustici, aggregandosi in configurazioni circolari e stellari che mimano – come nota Sciaccaluga – la cifra fumettistica impiegata per indicare uno scoppio o una deflagrazione. È come se i campi di energia addensatisi nelle opere precedenti avessero improvvisamente raggiunto un punto di non equilibrio, generando un’ebollizione materica ora circoscritta all’interno del quadro e non più, come prima, proiettata all’esterno.

Sul dialogo interno-esterno, superfice-profondità, campo-cornice si gioca tutto il successivo percorso di Secci, incentrato dal 1974 sul tema dello squarcio: una pelle formata da fili di nylon incollati al supporto, rivestita da una coltre di stucco colorato e incisa da tagli profondi, si solleva, rivelando ai bordi l’intrico dei fili e al di sotto una superficie di diverso colore. L’operazione unisce l’idea di un drammatico strappo con quella di una liberazione della materia dal supporto. Realizzati spesso con colori vivaci (blu klein, giallo limone, rosa, rosso) a sottolineare il contrasto tra il “sopra” e il “sotto”, gli squarci assumono col tempo un andamento più regolare e geometrico. Paradossalmente, Secci mobilita nella sua ricerca quello che a esse sembrerebbe in partenza più estraneo: la grammatica dell’astrazione novecentesca a partire da Mondrian. Dall’unione degli opposti risulta una sorta di composta tragedia.