Viaggio Terrestre e Celeste di Anna Rita Chiocca

Viaggio Terrestre e Celeste di Anna Rita Chiocca

Parlare di Antonio Secci e della sua ricerca non è semplice. Non si può affrontare l’opera di Secci al di fuori della biografia, dell’esperienza di vita, dove l’una determina il percorso dell’altra e viceversa, dove l’una da forza e sostegno alle scelte dell’altra. Si affiancano e intrecciano avvenimenti casuali e scelte artistiche, incontri e scoperte determinanti.

Nato in Sardegna, una serie di esperienze biografiche e artistiche lo condurranno, nel 1966, a Milano, spinto a questa scelta da Gianni Dova e Guy Harlotf, conosciuti sull’Isola. Milano è tra il 1960 e il 1970 una delle città più feconde nella sperimentazione contemporanea dal secondo dopoguerra. Assorbito dalla novità e dalla possibilità di arricchire il bagaglio di conoscenze, ha l’occasione di frequentare molte figure di spicco della cultura di quel periodo. Una folgorazione è l’incontro con Fontana e lo Spazialismo, come importantissimo è l’incontro, casuale, con Roberto Crippa, di cui diviene, a partire dal 1967 e fino alla morte del maestro, il principale collaboratore.

Le prime esperienze giovanili e la scoperta dello spazialismo sono fondamentali per comprendere il percorso di Secci, anche quando a partire dal 1974 la divisione dei piani nello spazio pittorico introduce l’idea del taglio, attraverso la costruzione del campo come superficie plastico‐cromatica. Dagli anni Settanta ad oggi, intraprende la sua ricerca applicandosi in una meticolosa variazione materica, supportata da un aspetto progettuale no n percepibile ad opera finita. Lo squarcio risultato di un’azione decisa dovrebbe determinare lo spazio, in realtà il taglio è un simulacro. E’ per paradosso il risultato del lento farsi di un serie di azioni ripetute, piccole variazioni, gesti brevi.

Un lungo percorso analitico attorno al taglio. Infatti, quel “(…) gesto che fende la tela stabilisce la continuità fra lo spazio al di qua e lo spazio al di là del piano (Fontana)”, in Secci non è presente, non come gesto. Gli squarci non sono tali poiché nulla è stato strappato, semmai diviso, separato chirurgicamente da una meticolosa costruzione, simulacro del gesto. Sono dunque confini e barriere, sponde che quasi si toccano, parvenze di lacerazioni in attesa di una sutura, forse neppure prevista. Non è presente il gesto unico e volitivo, al contrario questo si moltiplica all’ennesima potenza, in una progressione di azioni ripetute, rivolte alla costruzione di piani e campiture in una esplorazione di infiniti spazi e infiniti tempi, alla ricerca, forse, di un campo dove spazio e tempo tendono alla condensazione. Lo spazio è la possibilità concreta di instaurare una comunicazione di qua e di là del confine. Un nuovo spazio nasce da ogni nuova azione, come quando apro la porta ed esco.

Ogni volta è una rottura con ciò che mi sono lasciato alle spalle. Un altro spazio, un altro tempo. Il dolore del passaggio è più forte in presenza di una quotidianità costruita azione su azione; i campi cromatici realizzati con colori decisi: blu, rosso a volte giallo evidenziano un contrasto tra categorie spaziali: sopra/sotto, superficie/profondità, interno/esterno. Il centro di questo contrasto – che è dialogo‐ è una lacerazione. Nelle opere più recenti il dialogolacerazione ha tutta l’ambiguità del paradosso: il sotto diviene sopra, la figura sfondo, l’interno esterno. Come afferma Magnani: “Secci mobilita nella sua ricerca quello che ad esse sembrerebbe in partenza più estraneo: la grammatica dell’astrazione novecentesca a partire da Mondrian.

Dall’unione degli opposti risulta una sorta di composta tragedia” (Cala Gonone 2008). Secci in questo paradosso intende appropriarsi di territori inesplorati. Agisce da scienziato filosofo: inizia, negli anni giovanili,con l’analisi della struttura nascosta delle cose, l’osservazione imprescindibile della natura: “Nel mio intento osservare‐scrive nell’autopresentazione di un catalogo dei 1972 ‐ scoprivo che in essa [nella natura] le forme usuali si modificavano in forme astratte e solo lentamente riuscivo a riabituarmi alla loro nuova immagine…

Le sembianze sfocate della natura che io ricavavo non erano mai quelle reali, ma sembravano volute da un ordine metafisico, interno, essenziale delle cose”. Fa seguire all’analisi, la costruzione dello spazio nel quale agire attraverso gesti e azioni metodiche. Contano l’immaginario, l’infinito dello spazio, il tempo e l’energia necessaria a catturarlo. Eppure l’azione è incarnata nell’analisi e nella costruzione. E’ questa la chiave della tragedia. Le azioni ricorrenti, compiute sapientemente, non sono mai impulsive, non aggrediscono il campo, lo determinano, stabiliscono misure, proporzioni e confini. I gesti, ripetuti certosinimente, sono invisibili ad opera finita; è impossibile individuare la procedura tecnica e formale.