NEL CORPO DELLA MATERIA

NEL CORPO DELLA MATERIA

E’ probabile che le opere d’arte più interessanti – e fra queste si possono considerare quadri, sculture, film, spettacoli, raccolte poetiche, romanzi e altro – siano lavori originali e soggettivi capaci di manifestare una sensibilità allo stesso tempo individuale e collettiva. Che si è formata durante un preciso periodo storico, in una determinata cultura e in una certa condizione sociale. E che, nel corso del tempo e dell’impegno creativo, è costretta a confrontarsi con periodi storici che mutano velocemente, con culture profondamente diverse (e non sempre migliori) e con condizioni sociali inattese. Senza per questo poter smarrire forza e valore.
Antonio Secci nasce e si forma come artista in Sardegna, a cavallo della metà degli anni ’60, in una condizione di silenzio e di isolamento. La natura è la fonte di ispirazione e curiosità: “Nel mio intento osservare – scrive nell’autopresentazione di un catalogo del 1972 – scoprivo che in essa [nella natura] le forme usuali si modificavano in forme astratte e solo lentamente riuscivo a riabituarmi alla loro nuova immagine… Le sembianze sfocate della natura che io ricavavo non erano mai quelle reali, ma sembravano volute da un ordine metafisico, interno, essenziale delle cose”. Quando – spinto dal bisogno di informazione e confronto, incoraggiato da altri artisti – arriva nella fucina artistica di Milano, portando con sé questa formazione decisamente legata alle caratteristiche morfologiche e sociali della sua terra, la sua sensibilità si dimostra in grado di comprendere e sviluppare intuizioni che gli provengono dall’esterno, si palesa capace di contribuire all’arricchimento di una discussione d’impatto universale grazie a un’esperienza privata e insulare, che lui solo possiede. Antonio Secci ha prima partecipato a un dibattito e a una ricerca che stavano cambiando il corso della storia dell’arte italiana, recando un apporto individuale peculiarmente sardo, e seguentemente ha continuato a rielaborare, una volta tornato in Sardegna, idee che possedevano in sé i semi fecondi di una stagione creativa straordinaria, dalle conseguenze internazionali. Già questo basterebbe a far considerare degna d’attenzione la sua opera. Possiede inoltre una rara qualità: saper tradurre in immagini e contrapposizioni comprensibili il mondo complesso che lo circonda.

Antonio Secci lascia momentaneamente la Sardegna, per trasferirsi a Milano, nel 1966, spinto in questa scelta da due artisti che ha conosciuto sull’isola. Si tratta di Gianni Dova e Guy Harloff, i quali – colpiti dalle qualità pittoriche del giovane, appena ventiduenne – lo invitano a trasferirsi nella metropoli e insistono affinché si iscriva all’Accademia di Belle Arti di Brera. In realtà, in quel momento, prima di arrivare in Lombardia, Secci pratica una sorta di ingenuo surrealismo che, confrontato con la sua ricerca seguente, non può assolutamente essere considerato significativo, ma già nel modo di affrontare la superficie scenica del dipinto, nella capacità di dare alla forma un respiro aereo e indipendente rispetto al piano di fondo, egli mostra uno spiccato senso dello spazio. Logico che tale acuta sensibilità, al momento applicata a figurazioni oniriche, interessi particolarmente Dova: l’artista romano – oramai milanese d’adozione – dopo aver firmato nel 1947, insieme con Fontana, Joppolo e Tullier, il Primo Manifesto Spaziale e dopo aver preso parte, negli anni ’50, al Movimento Nucleare di Baj e Dangelo, si è volto da tempo verso un’astrazione surrealista che fonde la materia pittorica con la rappresentazione di personaggi metamorfici e geometrizzanti. Nello stile del giovane autore sardo può dunque leggere un sentire comune che, in fondo, lo avvicina a lui. E che Harloff e Dova non si fossero sbagliati lo dimostra, appena due anni dopo, Metamorfosi, opera poi pubblicata addirittura in un catalogo personale del 1989 (Galleria d’Arte Moderna Saporito, Alba). Su un fondo rosso, che si ripeterà con assidua frequenza nella produzione di Secci, una sagoma insieme puntuta e tondeggiante, debitrice sia nei confronti di Ernst che di Dova, sembra staccarsi dal fondo nonostante dichiari, candidamente, la propria bidimensionalità. La vibrazione cromatica azzurro/turchese che la connota sembra muoverla, lentamente, verso i limiti del quadro, raggiunti da linee aguzze nella parte inferiore e occupati da una forma piena e sferica nella parte superiore. E’ solo un esercizio di stile, ma palesa già nel 1968 una voglia estrema di capire e digerire le ricerche contemporanee più vicine e significative, nello sforzo di poterle rielaborare con un piglio del tutto nuovo. L’artista – come affermerà in un’intervista rilasciata nel 1973 a Viviana Carezzano – è completamente preso dall’ambiente artistico milanese, dal desiderio di aprire la propria ricerca, che lui definisce “gotico-barocca”, a ogni arricchimento possibile. E, poiché per Secci la frequentazione di ogni autore è il mezzo migliore per comprenderne l’opera e l’idea che la sottende, riesce a conoscere Lucio Fontana, Umberto Ungaretti, Eugenio Montale e molte altre figure di spicco della cultura di quel periodo (e non solo). Milano, è bene ricordarlo, tra il 1960 e il 1975 sarà uno dei poli della sperimentazione contemporanea dove si opererà con maggior fervore. Fontana e lo spazialismo, già compreso grazie a Dova, sono per Secci (e lo si può intuire guardando le sue opere di allora) una folgorazione, come importantissimo è l’incontro, casuale, con Roberto Crippa, di cui diviene, a partire dal 1967 e fino alla morte del maestro, il principale collaboratore. Durante questi anni di ‘apprendistato’ l’artista di Dorgali seguirà e vedrà da vicino la creazione di serie quali quelle dei Soli, delle Eclissi e dei Landscape. Anche Crippa, artista già famoso, con all’attivo partecipazioni alla Biennale di Venezia e personali presso gallerie allora decisamente importanti, crede fermamente nelle capacità dell’artefice sardo, tanto che gli dedicherà uno scritto di presentazione e, nel 1970, firmerà con lui due Composizioni. L’artista monzese non è nuovo alla realizzazione di lavori ‘a quattro mani’ ma, prima di Antonio Secci, avevano sottoscritto con lui un’opera comune soltanto Lucio Fontana e Victor Brauner (ovvero il teorico dello Spazialismo e uno dei più importanti esponenti del Surrealismo). Questa fiducia incoraggia Secci e spinge galleristi e collezionisti a interessarsi della sua ricerca. Le due opere sono frutto di una collaborazione semplice e immediata, basata sulla sovrapposizione dei segni distintivi dei due artisti: in un lavoro Crippa dipinge, in modo efficacemente stilizzato, un Sole, rosso fuoco e perfettamente sferico, di forte impatto cromatico ed emotivo, tramontante su un panorama costituito da linee di luce appena visibili leggermente obblique; nell’altro un sintetico Landscape finemente materico. Secci ‘cuce’ queste forme ai limiti del quadro, tramite un sottile e lunghissimo tratto in rilievo, costruito grazie all’accumulo di metalli diversi per caratteristiche e colore. Nella Composizione su fondo rosso il segno, continuo e zigzagato sopra il cerchio del Sole, parte da uno degli spigoli del quadro per fuggire, infine, dalla parte opposta, dopo aver sottolineato, toccandoli, numerosi punti della circonferenza geometrica disegnata da Roberto Crippa. Secci, che ha evoluto in senso ‘spaziale’ il proprio stile, abbraccia l’area dell’opera ‘misurandola’, scoprendo le linee di tensione che si accumulano dove figura e colore arrivano a colloquiare. Evidenzia queste linee di frizione ingigantendole, donando loro una forza e una potenza che solo il metallo riesce a suggerire. E le fa vibrare – quasi che l’energia dell’opera si potesse mutare in scariche elettriche, fatte di bagliori lucenti – fondendo insieme schegge di elementi diversi costretti a convivere fianco a fianco. Nei lavori di questi anni – dal 1970 al 1972 – l’artista, che considera i metalli come ‘impulsi-pensiero’ capaci di intervenire sopra una materia concitata (ma non ancora quanto lo sarà in seguito), ha deciso di combattere, a modo suo, il luogo sacrale e vincolante della tela. Facendo propri alcuni assunti degli spazialisti, anche Secci vuole vincere le ‘frontiere’ bidimensionali del quadro, intende trattare lo spazio reale all’interno della riflessione artistica. Lo fa mettendo in risalto – con un segno convulso e apparentemente gestuale, ma in realtà progettato accuratamente – i punti di crack dell’opera e violentandone i limiti grazie alla velocità. Il segno è infatti sopratutto veloce, e per questo il risultato sembra essere soltanto la traccia di un accadimento pregresso. La scia di fumo bianco di un aereoplano, troppo rapido per essere visto, ma in grado di lasciare un’orma combusta, aggressiva e modernistadel suo passaggio. Le impronte che restano sui fondi palpitanti di colore certificano che, precedentemente, ha avuto luogo un folgorante evento, di cui quei segni sono la descrizione, l’ideogramma capace di evocarlo.
La velocità del gesto e il pulsante desiderio di trasformazione che riscontra nella materia non possono che indirizzare Secci verso un’idea di mutazione prepotente e immediata. Questa intuizione, che prenderà in seguito definitivamente corpo nelle serie delle esplosioni e delle folgori, produce i lavori esposti nel marzo del 1972 presso Diarcon Due Arte Contemporanea, a Milano. La velocità del segno, prima ‘di passaggio’ sulla superficie dell’opera, comincia adesso a interessarsi a un percorso verso l’interno, a una presa di coscienza simultanea di tutto la spazio da dedicare all’intervento. Nascono così quelle forme stellari che trasformeranno l’inetrvento dell’artista in un’analisi meno convulsa e più ragionata della conflittualità tra forze opposte.

Nel 1972 – quattro anni dopo la scomparsa di Lucio Fontana – muore tragicamente Roberto Crippa, mentre sta impartendo lezioni di volo acrobatico presso il piccolo aereoporto di Bresso, poco fuori Milano. Rescissi dunque in maniera traumatica tutti i cordoni ombelicali con il periodo dell’apprendistato, per quanto Fontana fosse stato coinvolto meno direttamente nella formazione dell’artista sardo, Antonio Secci si trova quasi costretto a operare uno scarto nella propria produzione, segnata ora indelebilmente dal sentimento della precarietà d’ogni obiettivo e certezza. Alla confidenza, all’energia, alla vigoria con le quali l’autore prendeva possesso del territorio e dello spirito dell’opera, individuando senza tema di smentita le linee di forza e di attrito presenti sulla tela, costruendo sempre un nuovo ideogramma che nella solidità del metallo trovava la necessaria arroganza per imporsi come definitivo ed eterno, si sostituisce adesso la messa in scena di una lotta incerta tra fondo magmatico e segno ordinatore, tra pulsare indistinto della materia e volontà dell’artefice di misurarla e controllarla. Senza che nessuno dei due elementi riesca a prendere il sopravvento. Dove prima trionfava la capacità umana di indagare gli spazi, di accumularli e codificarli, ora si mostrano il dubbio e un continuo movimento. A partire dal 1972 il segno con cui Secci esplora i confini bidimensionali del quadro – segno che durante la fine degli anni sessanta e il principio del decennio successivo era aggressivo e tagliente – comincia a subire la minaccia e il condizionamento del supporto su cui interviene, di quel corpus materico che precedentemente sottometteva e violentava. Se nelle Strutture spaziali del 1970 è il tracciato metallico – lineare e geometrico, sempre ispirato dalla linea retta – a comporre il carattere Braille in rilievo, sensibile anche al tatto, capace di fondare un nuovo alfabeto espressivo, nelle Vibrazioni del 1973 e negli Spazi espansivi del 1974 il fondo cromatico a volte ha la stessa presenza e tangibilità fisica delle diagonali che lo attraversano. Una lettura tattile del lavoro non potrebbe più soffermarsi soltanto sul percorso disegnato dai tratti secchi e diritti, ma dovrebbe considerare l’intera superficie pittorica, comparando lo sfondo pulsante e grumoso al reticolato di segni geometrici. Sovente primo e secondo piano si cambiano addiritura di ruolo, in un sovvertito rapporto negativo-positivo. La traccia incide la materia, scava nel suo cuore, cerca all’interno di quel corpo vulcanico e ribollente un cammino fatto di calma e riflessione. Che non riesce però a essere stabile, non può più imporsi con forza e prepotenza sul supporto, cancellandolo all’attenzione del pubblico. In scena, appunto, c’è oramai solo la tensione, l’incertezza su cosa potrà prendere il sopravvento tra ordine e caos, segno e materia. Tutta l’opera di Antonio Secci in questo momento appare concentrata sul problema della dialettica interna al lavoro, su questa contesa tra impronta ed elemento che continua a muovere ed evolvere anche una volta terminato l’intervento dell’artefice. L’approccio spazialista e l’attenzione alle qualità pittoriche e cromatiche dei nuovi materiali, ereditati entrambi dal maestro Roberto Crippa ed evidenziati nei lavori costruiti fino a questi anni, sono decisamente alle spalle, per quanto il distacco stilistico possa, a guardare superficialmente, apparire minimo. Anche questo comportamento rientra nei canoni di Secci, troppo attento e anelante a un rigore supremo per mutare maniera radicalmente e senza soluzione evidente di continuità. Dal 1972 al 1974 l’artista sardo, perfettamente integrato a Milano, rimette in discussione anche il modo con cui prima – tramite linee zigzagate e nervose, spesso tendenti ai margini del quadro, quasi che la nuova dimensione spaziale fosse da ricercare lateralmente all’opera – creava all’interno dell’area pittorica vibrazioni e moto. Il movimento altalenante e centrifugo è sostituito da una forza vorticosa e centripeta che, conservando la completa attenzionedentro il quadro, devia quel cammino spazialista intrapreso anni prima al momento di lasciare la Sardegna. Ed è una svolta che, seppure semplicisticamente, può essere interpretata anche in chiave popular. Risente dell’influsso dei tempi, come è giusto che sia per un artista giovane e in piena maturazione, si allontana dalle edificazioni teoriche dei maestri, elaborate in fondo nell’immediato dopoguerra, per interessarsi anche solo di striscio a quella cultura psichedelica trionfante al momento. L’opposizione nevrastenica delle linee, la scelta dei colori e dei contrasti cromatici ricordano quei tipici effetti acidi del gusto estetico degli anni ’70, quella sensazione eccitante di iperattivismo prodotta dall’assunzione di LSD. Il segno, precedentemente descritto da rette decise, opposte e tracciate ad ampio raggio, diviene ora una sorta di icona pseudo-fumettistica della deflagrazione. Somiglia a quelle descrizioni cartonistiche e folcloristiche delle detonazioni militari, solitamente accompagnate da grossi BOOOM onomatopeici. Si connota quale testimonianza dello scoppio, per nulla drammatico, di una bomba, in cui la certificazione della presenza del tragico è demandata piuttosto alla continua e incessante frizione che interessa la relazione tra disegno e materia. Frizione che risulta accentuata dall’esplosione descritta nei quadri, diretta esattamente verso il centro dell’opera. A voler essere precisi si tratta dunque di una implosione, di una scossa tellurica – capace di muovere e squassare la materia dell’opera – che si propaga dall’esterno verso l’interno. Secci si dirige verso il fondo dell’opera ma, a differenza di Fontana, non è interessato a superarne limiti e confini fisici. Piuttosto cerca di produrre un buco nero, una muta deflagrazione spaziale che, spostando gli elementi del lavoro secondo orditi e propositi non ancora chiari, possa diventare un collegamento possibile con la dimensione poetica della riflessione. Pur sempre una ricerca spazialista, certo, ma puramente lirica, tesa a sfondare il confine tangibile del quadro solo idealmente. I lavori di questa serie, fondamentale non solo per il fascino delle costruzioni geometriche ma anche per lo sviluppo futuro della ricerca dell’artista, sono presentate da Secci soprattutto in occasione di due importanti esposizioni personali: presso la Bottega degli Artisti di Riccione nel luglio del 1972, in una mostra a due che celebra anche Roberto Crippa a pochissimo tempo dalla morte, e alla Galleria d’arte Cavour di Milano nell’aprile dell’anno successivo. Il disegno, mosso a causa del zigzagare incontrollabile delle linee e delle tensioni, è comunque graficamente equilibrato e perfetto, e tale accurato bilanciamento delle forme produce un effetto devastante sulla materia grezza che raccoglie intorno. Questa diventa instabile e volubile, viene attirata verso il centro, in cui sembra sprofondare per poter riemergere poi, in un prossimo futuro, rinnovata. Quelle righe che dovrebbero descrivere la forza dirompente di un’avanzante esplosione sono nelle opere l’unico elemento oramai sotto controllo, lo strumento grazie al quale l’artista sfida il caos per catturarlo e, finalmente, regolarlo e dargli assetto. Lavori come A 2000 anni luce (su fondo beige) del 1972 e sopratutto Esplosione nello spazio, Formazione della materia e Risonanza indotta, tutti e tre del 1973 e tutti presentati alla Galleria Cavour, sono la fotografia dell’istante in cui questo moto accentratore ha inizio, il fermo-immagine eterno dell’inizio di un processo completo di rivoluzione. Tutto resta in bilico come bloccato, immobilizzato dalla scatto di un otturatore, ma la sensazione che nell’immediato debba avvenire qualcosa di sconvolgente è forte e ineludibile. Antonio Secci lascia lo spettatore incerto sull’esito di questa presunta totale sovversione. Se, anni prima, confidava nel trionfo dell’uomo sugli elementi, nella sopraffazione della programmazione sul disordine – come dimostrano Struttura spaziale 14, Struttura spaziale 16 (entrambe del 1970) e anche alcuni quadri presentati nel marzo 1972 presso Diarcon Due di Milano, dove pure cominciava a prendere piede il nuovo indirizzo, abbozzato già dal 1971 in Struttura spazio-materica – adesso realizza le sue costruzioni in modo che rimanga incertezza sull’esito finale del confronto. Non si tratta più di controllare lo spazio ma di evocare una tensione energica e determinante. Lo scarto stilistico nei confronti dei lavori precedenti il 1972, cui si accennava sopra, è dunque ben lungi dall’essere minimo, poiché questa tensione diverrà, come vedremo in seguito, protagonista assoluta di ogni lavoro da allora ai giorni nostri. Sicurezza e desiderio d’affermazione del periodo dell’apprendistato si sono trasformati in ansia di ricerca, di ridiscussione, in un’indagine sulla controversia. E questo è indubitabile indice di compiuta maturità stilistica.
Anche quando, in questo periodo della sua ricerca, abbandona – di tanto in tanto e momentaneamente – la forma ellittica e implosiva, Antonio Secci non muta atteggiamento nei riguardi dell’opera. E’ sempre la tensione interna ad interessarlo, a concupire il suo impegno compositivo. Le costruzioni lineari del 1973 e 1974 sono importanti sia perché introducono nel lavoro quell’idea di cesura, di taglio, di interruzione che ha monopolizzato la ricerca durante gli ultimi venticinque anni, sia perché, pur continuando essenzialmente la sperimentazione immediatamente coeva, trasformano la dicotomia segno/materia in un confronto violento tra superfici. All’idealizzazione di una deflagrazione si sostituisce, sempre in uno stile acido e pop, la descrizione di un lampo, di un bagliore lucente che squarcia e stupra una superficie monocroma, per quanto ribollente di sostanza e di vita. Opere esemplari, tra le tante, sono Formazione della materia II e 2000 anni luce (su fondo turchese), entrambe del 1973. Nella prima non è più presente la rosa circolare o ellittica che, negli altri lavori contemporanei, chiudeva e delimitava l’area della detonazione. Il fregio, nero su fondo rosso, attraversa diagonalmente il quadro, con andatura ondulatoria, dividendolo in due sezioni contrapposte. La presenza di un segno lineare, anche se incerto e altalenante, o forse proprio perche oscillante, raddoppia la vibrazione del colore del fondo. Nella seconda il tratto, anche qui ininterrotto e a zig-zag, scruta e raggiunge ogni angolo del lavoro, tagliando infine in quattro sezioni irregolari (con base i quattro lati dell’opera) l’intera superficie. Maggiormente convulso, inquieto, incontrollabile, il segno si avvia a diventare esso stesso materia, va pian piano uniformandosi, come comportamento, al brulicante tessuto del fondale. Dal moto centripeto, quasi che il ‘buco nero’ sito al centro del lavoro potesse risucchiare ogni cosa, si passa a un movimento sussultorio e ondulatorio che, denunciando una estrema tensione, preannuncia la formazione di quelle faglie che lacereranno, di lì a poco, lo spazio pittorico dell’opera di Antonio Secci. Spazio cosmo espansivo 100, del 1974, riproporrà il taglio diagonale di Formazione della materia II (anche se opposto), ma, descrivendolo perfettamente come un fulmine, lo userà dichiaratamente per sezionare il quadro in due triangoli, dando idealmente inizio alla serie degli Squarci. Veloce come un lampo, folgorante, il segno balena sulla materia dilaniandola, ma al contempo rinuncia a vincerla, a combattere contro di lei. La tensione sta venendo meno; il corpo dell’opera non ha resistito a forze uguali e contrarie e ha, finalmente, ceduto. In modo sollecito, a breve, numerose ferite sostituiranno ogni contrapposizione dialettica.

Se al principio degli anni ’70 la ricerca dell’artista ha tentato di individuare quel momento di calma, quell’istante di apparente equilibrio che precede di un niente il precipitare inarrestabile e incontrollabile degli eventi, fissandolo in una posa quasi fotografica, dunque frenata dalla mancanza di una successione, dal 1974 in poi Secci preferisce mettere in scena i postumi di un accadimento irruente e devastante. Dove prima c’era il conflitto adesso ci sono soltanto le conseguenze di questa battaglia dialettica, dove precedentemente erano presenti, sulla superficie dell’opera, spasimi e frizioni, ora si possono vedere le lesioni e i traumi provocati da tanta ansia. Il percorso della ricerca e della sperimentazione, interessato alla lotta tra primo piano e sfondo del quadro, tra disegno e materia, tra intervento ordinatore e pulsare naturale degli elementi, cominciato intorno al 1966/68 con le personali di Sassari (Galleria La Gabisthuria) e Seregno (Galleria San Rocco), ha oramai compiuto una rivoluzione a 180°. Il segno che dominava e controllava la materialità del supporto – si pensi alle opere del 1970, tra cui la coppia di lavori firmati a quattro mani con Roberto Crippa – è stato prima contrattaccato da tanta corporale presenza materica e infine, a partire dalla seconda metà del ’74, sconfitto. Ora è sparito. Al suo posto una lacerazione – una faglia – segna quale sia stato esattamente il punto di tensione tra i blocchi, tra le reciproche volontà di sopraffazione. A partire dalla mostra autunnale organizzata alla Galleria d’Arte Cortina, a Verona, è la massa indistinta, che da sempre costituisce il fondo dell’opera, a diventare protagonista assoluta della ricerca espressiva, dell’ansia di narrazione e drammatizzazione. Tanto che Secci rende addirittura palese la tecnica con cui costruisce questa texture vibrante, questa trama palpitante che costituisce carne e fisico del lavoro. Gli strappi lasciano infatti intravedere lembi di epidermide costruiti cucendo insieme con il vinavil un reticolo fitto e inquietante di fili di nylon. Su cui il colore, fermandosi e raggrumandosi, imprigionato dalla ragnatela delle fibre, va a formare polpa e nerbo, ovvero ‘una storia’. Questo ‘tappeto’ cromatico rutilante e magniloquente su cui prima l’autore interveniva disegnando, questa ‘cute’ del quadro dove aveva fino ad allora inciso, come un tatuaggio, simbologie stellari o tuonanti, assume finalmente il ruolo principale nello spettacolo artistico che si va a rappresentare. In scena adesso vi è solo quella che prima era considerata scenografia, anche se aveva già lottato per strappare agli attori (i segni) battute importanti. E’ comunque una scenografia che porta sul volto e sulla pelle la testimonianza delle avventure passate, dunque racconta con il solo mostrarsi. Nei quadri che Cortina presenta a Verona e, successivamente, dodici mesi dopo, nello spazio milanese di Piazza Cavour (la stessa galleria delle mostre del 1970 e 1973, ora però denominata Cortina Cavour), il colore del fondo dialoga e interagisce con il cromatismo timbrico di un piano sovrapposto, che sembra essere stato tessuto direttamente sul corpo dell’opera. Gli strappi che violentano la trama dei lavori appaiono dolorosi quali piaghe e lesioni, ma come ogni squarcio svelano un mondo profondo e nascosto, articolato e pulsante, che altrimenti vivrebbe celato dalla coltre della superficie. Al dialogo caratteristico, in positivo/negativo, che si crea tra primo e secondo piano, entrambi definiti da colori decisi e primari, Secci aggiunge un respiro vitale e sofferto, trasformando la sostanza inerte delle opere in una pelle capace di esprimersi e urlare. In ogni lavoro di questa nuova serie, denominata Squarci, due colori opposti – solitamente uno pieno, denso, capace di assorbire la luce, l’altro brillante e chiaro, abbagliante – sono messi a confronto, costretti a discutere e rapportarsi. Una voluta interruzione, una mancanza o un lungo strappo consentono al cromatismo del fondo di aprirsi un varco verso lo spettatore, di liberarsi per un istante della massa che lo schiaccia e allontana. Un’altra rivoluzione a 180° si è però compiuta nella ricerca di Secci: adesso la texture superiore, non più lo sfondo, è maggiormente corposa e pesante, gravosa di battiti e palpitazioni. Se precedentemente, tra il ’72 e il ’74, il disegno – geometrico, lineare, zigzagante, nervoso – sembrava essere un percorso di quiete imposto a un magma in ebollizione, ora la coltre che copre i fondali, sulla quale si aprono le fenditure, è molto più ponderosa e massiccia dell’area che riveste. La densità dei segni di metallo del ’70, ricchi di peso, smagliature e riflessi, sembra essere tornata in auge.
I lembi lacerati delle ferite svelano quale intrico di fili sottenda l’architettura dell’opera, indirizzata ad abbandonare lo status di quadro bidimensionale per diventare pitto-scultura. La spessa pelle di colore e materia racchiude una rete di fibre sottili simili a vasi sanguigni, arterie e vene che rendono ancora più evidente e vitale il respiro, rallentato e lungo, di questa epidermide. Oramai non si tratta più di un dilemma da dirimere all’interno del sistema dell’arte, di una lotta tra strumenti diversi che vogliono entrambi esprimere la volontà dell’autore. Antonio Secci ha cercato, e finalmente ha trovato, il modo di suggerire l’esistenza, lo spirito vitale della materia, che adesso espone i suoi drammi e le sue vicissitudini. Con tutti i ripensamenti del caso: la distanza tra le due superfici – superiore e inferiore – e la densità delle venature provoca, grazie alle ombre riflesse sul fondo dell’opera, un terzo colore, appena accennato e brunito, che media il contrasto secco tra le due tonalità acriliche delle masse. La vita non si orienta mai scegliendo tra sole due direzioni; esiste sempre un momento di incertezza durante il quale ogni soluzione potrebbe essere possibile.
Nell’aprile del 1976 l’artista è invitato a tenere un’importante mostra personale presso il Musée Municipal de Saint Paul de Vence. In questa occasione espone numerosi Squarci che rinunciano momentaneamente alla rappresentazione evidente dello strappo traumatico per consentire la realizzazione di una contrapposizione geometrica tra una vasta area e taluni inserti (emergenti dal fondo) di forma regolare. Il catalogo riproduce quattro opere di questo tipo. Nello Squarcio n.2 una linea ondulata separa in due parti l’epidermide ocra del lavoro, lasciando intravedere nella fenditura il colore bianco della superficie sottostante. Squarcio n.3 riprende invece un’idea del ’74 – messa in pratica in Squarcio, opera della collezione Persiani qui di seguito riprodotta – che vede lo spazio rosso della cosiddetta ‘pelle superiore’ lentamente violato da tagli neri e scuri, che partono da sei estremità simmetricamente corrispondenti. Tanto da minacciare la scissione del quadro in quattro sezioni paritetiche. Secci è ora interessato all’aspetto architettonico dell’edificazione artistica, tanto che mette da parte la drammatizzazione per evidenziare, con stile concretista, l’aspetto progettuale della ricerca. Studia le possibilità della costruzione modulare, esegue sempre cesure regolari, vaglia le capacità espressive di colori timbrici e accesi (il giallo e il blu, per esempio). La messa in scena di una tensione, di una dialettica tragica, è però concepimento decisamente più affine alle qualità liriche dell’artista e presto, pur non abbandonando mai completamente queste composizioni geometriche, che tornano nella produzione fino alla fine degli anni ’90, privilegerà chiaramente questo tipo di elaborazione.

Se il lavoro di Crippa, frequentato assiduamente per lungo tempo, è stato oramai definitivamente compreso e rielaborato, Antonio Secci non ha però ancora completamente rielaborato l’eredità dell’opera di Lucio Fontana, che continua a incontrare idealmente ogni qual volta interrompe la trama di un lavoro lacerandone la continuità, provocando una ferita sofferente e indiscreta. Nel 1977 affianca, alla serie degli Squarci, una ricerca che, nel volgere di un breve periodo, affronta definitivamente il fantasma del maestro dello Spazialismo e le sue Attese. Su fondi rossi, che non sono semplici tele ma supporti densi di colore, disegna a spesso rilievo una successione di segni bianchi, lunghi e leggermente panciuti, che altro non sono se non il calco in positivo dei tagli di Fontana. Secci però sistema le attese sul quadro in modo da costruire una decorazione grafica, un susseguirsi di fregi che annullino l’idea di sfondamento praticata dall’artista di Buenos Aires in favore della realizzazione di un motivo ipnotizzante. Nascono così, tra le altre, Vibrazione astrale e Titolo da definire. Nella prima, dieci rette, ognuna piegata a formare una sorta di boomerang irregolare, si raccolgono nella parte bassa del dipinto, a formare un rombo adagiato orizzontalmente quasi sul fondo dell’opera. Gli angoli convergono a suggerire l’idea di una fuga prospettica verso il cuore della materia, ma il tutto rimane un accurato gioco architettonico e decorativo. Nella seconda, quattro linee diritte si intersecano in un unico punto, formando così, sempre nella parte inferiore del rettangolo rosso, una composizione radiale. Anche in questo caso le linee bianche, tracciate con semplice prospettiva, suggeriscono una penetrazione verso l’interno, ma qui è in corso piuttosto un processo di emendamento nei confronti di Lucio Fontana. Traformando le Attese in un modulo moltiplicabile, in un fregio con il quale evidenziare (evitando di violarla) le caratteristiche della superficie pittorica, Antonio Secci allontana da sé, in maniera evidente e ironica, paradossale, l’approccio spazialista. Lo cita chiaramente per tradirlo, finalmente, in modo da proclamare il definitivo distacco. In Titolo da definire, sempre con linee bianche su supporto rosso, l’ironia con cui affronta i Concetti spaziali è addirittura irriverente (ma si tratta di un’irriverenza necessaria per poter procedere oltre): una sequela di ‘tagli in positivo’ si succede fino a dare vita a una configurazione sinusoidale che attraversa l’intera opera. A Secci, oramai è chiarissimo, interessa un corpo pieno e saturo, voluminoso, e non la scoperta e la definizione del vuoto. D’ora in poi saranno molteplici le ferite portate alla carne del quadro, ma nessuna potrà ancora essere letta quale rielaborazione della ricerca del grande maestro.

Nel 1979, per motivi strettamente familiari e anche perché deluso da un dibattito culturale che inizia a scadere qualitativamente (Milano sta progressivamente diventando, e lo resterà per tutti gli anni ’80, la capitale di un edonismo incolto e volgare), Secci compie un viaggio esattamente inverso a quello che, nel 1966, l’aveva portato nella metropoli lombarda. Torna a vivere in Sardegna, in un luogo splendido e remoto come Cala Gonone, in provincia di Nuoro. Rallenta di conseguenza l’attività espositiva, difficile da seguire e favorire dall’isolamento che si è scelto, nonostante questa stesse registrando nel frattempo soddisfacenti consensi di critica e pubblico. Grazie anche al lavoro mercantile attento e continuo della Galleria Giraldi di Livorno, un gruppo di collezionisti seguiva infatti, già dagli inizi del decennio, il suo lavoro con costanza, acquisendo le sue opere e affiancandole, nella maggior parte delle raccolte, a quelle di Crippa, Dova, Campus e altri. Estromettendosi per propria volontà dall’attenzione di spettatori ed esperti, l’artista dirada le occasioni in cui mostrare le ricerche più recenti e preferisce dedicarsi a una silenziosa sperimentazione. I veloci ricambi generazionali – artistico, galleristico e critico – che sconvolgono l’ambiente e banalizzano gli studi a partire dal 1980, sull’onda di un boom economico presunto piuttosto che reale (tanto che le conseguenze saranno disastrose), fanno in modo che l’isolamento desiderato da Secci possa essere interrotto di rado.
La sua ricerca continua però incessante e convinta, anche se sono davvero poche, dopo la vorticosa attività degli anni 1970/77, le occasioni in cui accetta di mostrarla. Dal 1980 al 1999 terrà una sola personale: presso la Galleria d’Arte Moderna Saporito di Alba (1989).
Eppure il lavoro procede spedito, per quanto in direzione univoca. Dal 1977 a oggi Secci torna e ritorna sui concetti e sulle forme degli Squarci, privilegiando sempre più il lato dolente e traumatico della messa in scena. Lo strappo è oramai un segno ineluttabile del destino, un evento necessario e violento che squassa la quiete, altrimenti monotona, della campitura monocromatica. I colori, che nella seconda metà degli anni ’70 erano sovente molto accesi e variati (tra gli altri i gialli, i toni rosati, una vasta gamma di tinte brune) vanno pian piano sintetizzandosi sempre più, fino a divenire, nel periodo più recente, una selezione ristretta e precisa, pur con qualche continua eccezione. Il bianco e il nero, il rosso e il cosiddetto ‘blu klein’ si ripetono ossessivamente, con combinazioni fisse. La reiterazione della ricerca, concentrata su determinati problemi, non è altro che un esercizio assoluto di meditazione: l’artista frena lo sviluppo orizzontale (progressivo) dei suoi studi per esasperare il desiderio di approfondimento. I temi si ripetono – grandi tessiture materiche violentate da un lungo taglio, da una ‘frattura composta’ che lascia vedere la campitura sottostante, sempre in netto contrasto (quasi opposizione, tipo bianco/nero) con la tinta della texture – ma nel frattempo il colore ha acquisito una caratteristica che prima non aveva, almeno così accentuata: la profondità. La lacerazione si è oramai connotata quale percorso, intagliato nella morfologia dell’elemento, diretto all’anima stessa del quadro. Non è più traumatica la separazione dei due lembi contrapposti; il distacco, nonostante celi una evidente sofferenza, appare adesso necessario, affinché possa svelarsi il senso profondo del lavoro. Volontà dell’autore è sempre costruire una sorta di equilibrio precario, di bilanciamento momentaneo – nel senso che l’azione non deve sembrare bloccata, ma destinata a continuare nel tempo – di tensioni contrapposte. L’attenzione è ora però decisamente captata dal fondo. L’idea che prende corpo e si impone è quella interpretata dal cromatismo del fondale, che adesso sembra gridare, liberata, una verità troppo spesso celata e zittita da una buccia spessa e ottundente. Se prima, attraverso questi spiragli conquistati a fatica e con violenza, il colore del fondo giungeva a colloquiare con la trama, con la pelle che lo ricopriva, svelando la natura bivalente di ogni cosa, adesso non si tratta più di guadagnarsi un rapporto dialogico: l’approfondimento è diventato viaggio verso la compiutezza. L’epidermide pulsante non riesce più a nascondere, a sottomettere quella realtà quieta, sicura e forte (come definita dal colore più acceso di quello della coltre soprastante, dalla consistenza materica liscia e meno titubante) che chiede spazio e proscenio. Ora la ricerca sembra aspettare che tutti i segreti vengano alla luce. Ma – essendo i fondi colore puro, assoluto e monocromo, oramai decisamente imperante sulla massa e sulla materia – è chiaro che l’opera di Antonio Secci sta giungendo a una nuova svolta: risolto definitivamente il dissidio dialogico tra segno e materia, tra volontà e corpo, l’artista si avvia a ritrovare nuovamente una superficie pura – che si è liberata d’ogni costrizione – su cui intervenire.